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Colesterolemia LDL e mortalità: quale strategia?

Inserito il 04 maggio 2012 alle 19:18:00 da fimmg1957. IT - Clinica


Prescrivere statine in base ai target LDL non ha una coerente base di evidenze.

AIFA ha cambiato la nota 13 sulla rimborsabilità delle statine. Siamo passati da una base decisionale che aveva come modello l'analisi in prevenzione primaria del rischio cardiovascolare globale, stimato sulla popolazione italiana, ad una strategia basata sul raggiungimento dei target di colesterolo LDL.

Rodney A. Hayward e Harlan M. Krumholz hanno recentemente pubblicato un articolo in cui, rivolgendosi all'Adult Treatment Panel IV of the National Institutes of Health, invitano ad abbandonare la strategia di perseguire il raggiungimento dei target di colesterolemia LDL nella prevenzione primaria cardiovascolare.

Le ragioni addotte dagli autori sono chiaramente esplicitate:

1) manca uno studio controllato che dimostri che applicando la strategia di decidere in base al raggiungimento dei target di LDL colesterolo si riducano morbilità e mortalità.

2) Le LDL sono un parametro assai poco rappresentativo del rischio cardiovascolare, molto meglio approssimato dal rapporto HDL/colesterolo totale, e la riduzione della colesterolemia Ldl è poco indicativa della variazione del rischio cardiovascolare globale.

La combinazione dei due precedenti punti rende assa poco raccomandabile, per gli Autori, trattare in base ai livelli di LDL.

Questo ragionamento varrebbe anche se le statine agissero solo riducendo il colesterolo, anche senza ipotizzare effetti pleiotropi.

Un ulteriore aspetto riguarda il bilancio globale tra benefici e rischi e non può non prendere in considerazione anche la sicurezza del trattamento ipocolesterolemizzante.

Non sono solo da considerare gli eventi avversi tipici e ben conosciuti delle statine, farmaci nel complesso ritenuti sicuri, ma anche gli effetti che stanno emergendo, ossia il rischio di indurre o di favorire/anticipare l'insorgenza di nuovi casi di diabete.
Queste preoccupazioni potrebbero al contempo essere bilanciate da effetti positivi su sistemi diversi da quello cardiovascolare, come ad esempio sull'incidenza di morbo di Parkinson. E' chiaro che questi dati necessitano di robuste verifiche per comprenderne il reale significato clinico-epidemiologico.

Le evidenze relative ad una possibile correlazione tra l’uso di statine ed il rischio di cancro sono ancora controverse: una recente metanalisi di 26 RCT non ha rilevato alcuna correlazione (positiva o negativa) tra impiego di statine ed incidenza di cancro.
In uno studio è stata valutata l’incidenza di cancro per un follow-up di 9,4 anni (valore mediano 4,91 anni) in 361.859 soggetti che assumevano statine inclusi nel Kaiser Permanent Medical Care Program della California del Nord (KPMCP). Osservati nella loro totalità ad un follow-up di 9,4 anni i risultati aggiungono esigue evidenze in merito ad una relazione tra l’uso di statine e rischio di cancro; gli HR erano egualmente suddivisi tra aumento e riduzione del rischio.

Un importante contributo su queste tematiche viene da un collega, medico di medicina generale, il Dottor Alessandro Battaggia di Verona, il quale ha studiato il rapporto tra colesterolemia Ldl e mortalità. Tra i vari aspetti del lavoro di Battaggia uno dei più importanti riguarda l'esame dell'eventuale rapporto di log-linearità tra colesterolemia Ldl e mortalità. Nonostante molte metanalisi e singoli trials, esiste una sostenziale incertezza sull'esistenza di un rapporto log-lineare tra riduzione della mortalità e della colesterolemia HDL. L'esistenza di questo rapporto è cruciale per poter valutare le scelte di modifica della nota 13 e non può non influenzare anche le singole decisioni terapeutiche. I margini di incertezza sono certamente ampi. Se l'effetto delle statine sulla riduzione della mortalità in prevenzione primaria è dunque dubbio, non esistono evidenze da studi importanti che dimostrino che, indipendentemente dalle statine, la riduzione della colesterolemia LDL si traduca in una riduzione della mortalità e men che meno della morbilità.

E' molto importante sottolineare infatti che l'unica metanalisi che ha veramente selezionato SOLTANTO pazienti in prevenzione primaria, scartando tutti quelli che avevano avuto eventi cardiovascolari, non ha dimostrato un rapporto tra riduzione della colesterolemia e mortalità. Tuttavia è certamente importante considerare che non esiste solo la mortalità e che la morbilità in questo ambito può essere molto grave e determinare esiti devastanti sulla qualità di vita come ictus o scompenso cardiaco. Purtroppo se i risultati degli studi su mortalità e colesterolemia LDL non sono conclusivi quelli sulla morbilità non ci sono proprio oppure sono ancor meno indicativi.

Uno dei principali problemi rimane comunque, anche nei modelli basati sulla stima globale, quello della capacità predittiva e dell'accuratezza della stima dei soggetti a medio rischio.
Sono stati valutati qualche centinaio di nuovi biomarkers di rischio cv, ma nessuno di questi ha dimostrato di migliorare più di tanto la capacità predittiva basata sui classici fattori di rischio che, in misura un po' diversa tra loro e con diverse pesature, tuttavia, coerentemente, sono alla base dei vari progetti cuore, Framingham etc etc.

Una strategia tutta da valutare, in termini di implementabilità, efficacia ed efficienza, è quella basata su un tentativo di stimare meglio il rischio intermedio usando non biomarkers, ma la stima del calcio coronarico o la stiffness od altri sistemi, derivati da parametri ecocardiografici, di non proprio immediata ed universale implementabilità. Tali sistemi, come sempre, non possono prescindere da 2 fattori: la prevalenza della condizione da cercare ed il potere predittivo positivo e negativo del test.

Facciamo un esempio: supponiamo di avere un test con valori quasi ideali di specificità e sensibilità che poniamo, per comodità, al 85 % e al 90 %, se la prevalenza della condizione è del 5% nella popolazione in cui la cerchiamo ebbene l' accuratezza diagnostica predittiva sarà "solo" del 24%. Ma c'è un altro aspetto: che succede in quelli in cui il test è falsamente negativo?
Facciamo un altro esempio: prendiamo 10000 soggetti che sottoponiamo a ECG sotto sforzo. Avremo 9500 negativi e 500 positivi. A quelli positivi sarà fatta la coronarografia e ne troveremo 200 positivi. Assumendo in costoro una mortalità di 0,72 % per anno, avremo 9 morti in 5 anni. Nell'altro gruppo, quello con test da sforzo negativo, cioè i 9500, assumendo una mortalità dello 0,06% per anno, avremo 29 morti in 5 anni.

Quindi il problema è che in prevenzione primaria la maggior parte dei test positivi sono falsi positivi e che la maggior parte (in termini di numeri assoluti, non di percentuali) di eventi si verifica nei soggetti negativi al test.

Per quanto tempo vogliamo poi considerare il modello? In alcuni casi, come ad esempio la stima del calcio coronarico, i risultati sono molto diversi se prendiamo una timeline di osservazione di 5 o 10 anni. Si passa da una incidenza di mortalità del 4% a 5 anni ad una del 12% a 10 anni usando sempre lo stesso cut-off per stratificare la popolazione studiata.

Usando Framingham con l'aggiunta della stima del calcio, modellata a 10 anni e con cut-off di stratificazione del calcio elevati vs bassi, si ottiene che un 23% di soggeti del gruppo INTERMEDIO CON EVENTI passerebbero al gruppo a RISCHIO ELEVATO e un 15% di soggetti SENZA EVENTI passerebbero dal GRUPPO INTERMEDIO a quello a BASSO RISCHIO.

La domanda fondamentale tuttavia è: sapendo prima e meglio quale rischio uno ha ciò potrebbe più facilmente indurre a fargli cambiare stile di vita e mantenere nel tempo il cambiamento? Smettere di mangiare troppo e male, smettere di fumare, cambiare vita?

Ebbene, la risposta è no. (Arch Intern Med 2001 171:97)

Luca Puccetti

Fonte

1) Circ Cardiovasc Qual Outcomes 2012;5;2-5;

Si segnala l'interessante relazione del Dottor Alessandro Battaggia su queste tematiche :

http://vimeo.com/39463657

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